Cure mentali
: ruolo del pediatra di famiglia
Proposte per una cura integrata dei disturbi psichici infantili ospedale-territorio-associazioni di volontariato
Proposte di Ferruccio Masnata ad Alberto Ferrando, sperando
nella futura collaborazione con: Noemi Boiardi, Giovanni Semprini, Maria
Arpe, G. Ghinelli, Massimo Blondett*, Marcella Zera,
Rosa Panseri, Giorgio Conforti.
E
con l’APEL onlus (Associazione Pediatri
Extraospedalieri Liguri)
*medico
di medicina generale
Il
pediatra di famiglia ha un ruolo cardine nella gestione del bambino sia in
situazioni di fisiologia che di patologia.
Negli
ultimi decenni il pediatra di famiglia ha acquisito una propria cultura
differenziandosi dal classico ruolo del medico che curava la malattia ed ha
assunto un ruolo preventivo in quanto dialoga innanzitutto prima con la famiglia e poi con il bambino. In caso di malattia il pediatra interviene
per la diagnosi e cura e, in situazione di una patologia di una certa gravità,
indirizza il paziente ad effettuare esami di approfondimento ed invia il bambino
allo specialista. Il pediatra mantiene sempre comunque la gestione globale del
bambino per cui, dopo una consulenza specialistica, decide quale è la strategia
migliore per quella malattia, in quel momento, di quel bambino, in quella
famiglia e in
quel contesto sociale.
Nel
caso di una patologia di una certa importanza, come le
psicosi e nevrosi infantili, il pediatra di famiglia delega chiaramente per competenza la cura del bambino a strutture
specialistiche, quando funzionanti, o a uno specialista privato ed assume
comportamenti importanti:
tenere rapporti con la struttura specialistica
“tradurre” determinate frasi dette in ospedale
alla famiglia
supportare
psicologicamente ed
“affettivamente” in senso lato il bambino e la famiglia
documentarsi ed aggiornarsi sulla patologia che affligge il
bambino (e la famiglia) al fine di dare risposte adeguate
indirizzare eventualmente, su richiesta della famiglia o su
iniziativa personale, il bambino ad un altro consulto o a un altro centro che
fornisce risposte più adeguate per quella patologia
evitare d’indirizzare per cure il bambino a
strutture lontane, come quella ben nota di Pisa, che a causa della lontananza
non possono assumersi una cura lunga e con frequenza plurisettimanale
contattare eventuali associazioni laiche che possano aiutare il
gruppo famigliare
Per usare una frase già utilizzata il pediatra di
famiglia è passato nell'arco degli anni dal “to cure”
al “to care”.
Il
bambino:
Chiaramente
il bambino è al centro dell'intervento del pediatra e di tutte le altre figure
professionali e va ascoltato con rispetto e con amore quando chiede di aiutarlo
a guarire. Differentemente dagli adulti i bambini, per problemi di età o di
patologia, possono non essere in grado di comunicare le loro sensazioni e non
sono autonomi nel cercare un sollievo dal dolore mentale.
E' necessario che gli adulti riconoscano i sintomi per fornire un appropriato trattamento
La
famiglia:
In
situazioni di handicap e di patologia grave, come le
psicosi e le nevrosi infantili l'intervento deve essere indirizzato
anche alla famiglia.
L'importanza
della famiglia nell'assicurare la salute generale ed il benessere dei bambini è
stata riconosciuta nella “Dichiarazione Mondiale sulla Sopravvivenza, la Protezione
e lo Sviluppo dei Bambini” al Summit Mondiale per l'Infanzia (UNICEF, the state
of the world's children. Oxford. Oxford University
Press, 1991):
La famiglia ha la responsabilità
primaria della crescita e della protezione
dei bambini
dall'infanzia all'adolescenza e tutte le istituzioni della società
dovrebbero rispettare e
sostenere gli sforzi dei genitori e delle altre persone
che si occupano
della crescita e della cura dei bambini nell'ambiente familiare.
E' necessario considerare tutto il gruppo famigliare:
valutare e prendere in esame le ripercussioni su fratelli e sorelle, le
dinamiche di entrambi i genitori e dei nonni.
Le cure centrate sulla famiglia incoraggiano i
familiari a scegliere come partecipare ai trattamenti dando loro informazioni
culturalmente appropriate e insegnando loro tecniche comportamenali
e di adattamento.
La famiglia deve essere assecondata, per quanto
possibile nei suoi desideri. (Per esempio se richiede
l'intervento di altre figure professionali)
Considerare sempre gli aspetti spirituali e religiosi.
Dare regole chiare e precise su tutti gli interventi
medici (p. es. spiegando che la psicoterapia può non
dare una guarigione completa, ma avrà, se ben condotta da persone esperte,
effetti di miglioramento anche notevole e di sollievo per la famiglia)
Usare termini adeguati. Non usare mai frasi tipo “bambino incurabile, matto, non ci sono cure, resterà così, è
organico e non si può curare”.
Soprattutto il pediatra deve: comunicare, comunicare,
comunicare in qualunque momento.
Il
pediatra:
Per
fortuna l'incidenza di patologie serie non è molto elevata per cui la
preparazione e l'aggiornamento del pediatra di famiglia verte principalmente
sulle patologie che osserva più frequentemente. In caso di patologie importanti
ha necessità di preparazione e di aiuto da parte delle strutture specialistiche
per quanto riguarda la documentazione tecnico scientifica
al fine di conoscere la patologia per ciò che concerne prognosi, terapia ed
evoluzione. Ha inoltre necessità di aiuto e di appoggio psicologico e morale
per poter aiutare il bambino e la famiglia e per poter condividere con altri colleghi
responsabilità, gioia e dolore.
(La gioia condivisa si moltiplica, il dolore,
e la responsabilità condivisa
si dimezza).
In
sintesi il pediatra di famiglia deve essere aiutato per poter aiutare, ma i gruppi di discussione tra colleghi (gruppi Balint) non sono all’ordine del giorno.
Purtroppo
nella preparazione universitaria del medico e del pediatra non viene insegnata
la comunicazione, il “counselling”, il comportamento
da seguire di fronte a particolari situazioni di patologia “importante”. Il
pediatra si trova da solo, almeno inizialmente, a dover aiutare senza sapere
modulare dentro di sè le emozioni ed i sentimenti.
Rischia
di essere o apparire freddo o distante oppure di partecipare alle stesse
psicodinamiche del bambino
e della famiglia. Il pediatra però non può essere
criticato: nessuno si è preoccupato di fornirgli quella formazione che permette
di affrontare e sopportare il disagio mentale.
Personalmente
mi è capitato di rivivere dentro di me gli stessi processi che avvengono nei
genitori: angoscia, negazione, incredulità, sfiducia o dubbi nei confronti di
chi ha posto la diagnosi, frustrazione nei confronti della malattia,
insofferenza nei confronti di determinati esami o terapie, ottimismo dopo pur
minimi miglioramenti, crollo dopo un peggioramento, rabbia nei confronti di
medici o personale paramedico per certe frasi o per certi atteggiamenti (lei
non può capire, noi stiamo facendo il possibile e voi ci intralciate, non
capite, non ci capite, non capite il bambino, io farei così non come voi ecc.).
Questa
mancanza di formazione dipende anche e soprattutto, come detto sopra, dalla
carenza di preparazione che dovrebbe essere compresa nell'iter formativo
universitario e post universitario.
Ancora
recentemente, in ambito universitario mi è stato riferito che i corsi di comunicazione non sono
ritenuti utili in quanto “ci sono persone portate a comunicare, altre no o meno
per cui la capacità di comunicare è un fattore intrinseco all'individuo non
modificabile con lezioni teoriche”. Ricordiamo che in
Università estere, come a Ginevra, l’insegnamento della psicologia medica (che
non è la psicologia dei malati, ma la psicologia del medico nei rapporti
con pazienti e famiglie) veniva impartito durante tutti gli studi di Medicina,
a partire dal primo anno e fino all’ultimo, fin dagli anni ‘960-70. Questo
evita appunto che si possano fare affermazioni come quella sopra riportata: “i corsi di comunicazione non sono ritenuti utili…comunicare
è un fattore intrinseco all’individuo non modificabile con lezioni teoriche” .
Le lezioni di Ginevra non erano teoriche ma fatte a partire dai vissuti e dalle
reazioni dei medici e degli studenti a partire da casi clinici.
Inizio
ad essere vecchio per cui provengo da una certa medicina autoritaria,
verticistica e paternalistica. Quando sono entrato in specialità, salvo pochi
casi, i bambini rimanevano in ospedale senza i genitori e venivano legati con
un particolare “corpetto” con dei legacci per evitare che si buttassero giù dal
lettino. Quando è arrivato, per legge, l'obbligo di avere un familiare accanto
ho sentito da parte della maggior parte di medici delle proteste in quanto la
figura della mamma avrebbe complicato il loro lavoro. Avrebbero dovuto
comunicare con i familiari. Parlo degli anni 70, non del medioevo.
Perchè
faccio questo discorso? Per cercare di spiegare come è difficile far entrare
nella mente di alcuni, soprattutto se abituati ad un certo modo di essere, il
concetto di “comunicazione”.
Per
fortuna esistono le associazioni di volontariato, di genitori di bambini
malati, di cure
palliative che aiutano la famiglia e il medico e che potrebbero funzionare come
forze “catalizzatrici” di un nuovo modo di vedere la malattia, soprattutto
nell'ottica di una maggior umanizzazione e deospedalizzazione che ha la sua
espressione principale nella “home care” o assistenza domiciliare.
Assistenza
domiciliare:
Si
tratta di un sistema integrato di interventi domiciliari di assistenza
sanitaria e sociale e di counselling al fine di fornire quell’aiuto familiare spesso
indispensabile, oltre alle cure ambulatoriali.
Hanno
le seguenti caratteristiche
1)riducono il disagio psicologico e sociale avvertito dai genitori
dei bambini mentalmente disturbati e alleggeriscono il carico delle famiglie
2)modulano, in senso flessibile, l'assistenza
3)coinvolgono attivamente la famiglia nel programma terapeutico e assistenziale
4)contengono i costi
Proposte
operative:
.
A livello di ordine dei medici, con l’appoggio
dell’APEL, si dovrebbe
formare un gruppo di medici con una disponibilità e compatibilità
ad operare sulle patologie mentali. Questa
“equipe” per l'assistenza psichica ai bambini e
alle famiglie si potrà avvalere della consulenza dei vari specialisti della struttura pubblica e
del privato (psicologo, neurologo ecc.)
Tale
equipe dovrebbe essere in grado di fornire consulenza e formazione, e se
richiesta, consulenze specialistiche a domicilio, ad un analogo gruppo territoriale formato
da pediatra curante del bambino, pediatra del consultorio materno infantile,
personale dei servizi sociali e sanitari con l'aiuto fondamentale delle
associazioni di volontariato.
Sempre
più in termini operativi e locali si potrebbe partire dai pazienti psicotici, tra cui gli autistici, che sono,
fortunatamente, pochi a Genova.
A
Genova non esiste un solo ospedale pediatrico capace
di trattare bambini psicotici sulla base di esperienza trasmessa da specialisti
a ciò formati. Tale equipe non si potrebbe formare subito, perché sono anni che
se ne parla e non si conclude nulla, forse non c'è la volontà e soprattutto la comprensione necessarie, ma non si può mai disperare. Da
parte dei pediatri extraospedalieri esiste attualmente una buona volontà e coscienza
del problema. Ma non succederà nulla se
l’associazione APEL non si farà carico di formare sul territorio un'equipe
analoga a quella ospedaliera, che oggi è soprattutto neurologica e priva
della possibilità di occuparsi delle psicosi infantili. A questo punto le equipe ospedaliera e territoriale si potrebbero
incontrare per definire integrazione, ruoli e competenze.
In
un secondo tempo, se
il sistema funzionasse, si potrebbe estendere a livello regionale con le altre
strutture ospedaliere e territoriali della Regione.
Finora, come fino a un passato recente per le cure palliative, si è
andati avanti scotomizzando il problema, confidando i bambini a tutti
(logopedisti, motricisti, insegnanti etc.) meno che a
medici, evitando l’argomento nelle specializzazioni di pediatria e di
neuropsichiatria infantile. E’ tempo che i pediatri intervengano, consci del
fatto che non si possono lasciare bambini malati all’esclusiva cura di chi non
è curante.